“Ama” in giapponese significa “donna del mare”. Con questo nome ci si riferisce alle pescatrici di perle (ma anche di ostriche, abaloni e altri molluschi) che da più di duemila anni vengono raccontate da artisti, scrittori, poeti che le paragonano spesso alle sirene. La più celebre rappresentazione artistica è la stampa policroma di Utamaro del 1790-1800, dove le Ama sono adagiate sugli scogli come vere e proprie sirene.
Le Ama sono famose perché si immergono in apnea, senza bombole e con la maschera, per pescare a mani nude o con guanti speciali. Inizialmente le pescatrici si immergevano vestite del solo perizoma (fundoshi), ora usano una muta o una leggera veste di lino bianco (isogi). Oggi le Ama rimaste in attività sono quasi duemila, hanno fra i 20 e i 70 anni e le possiamo incontrare nella regione di Ise, lungo la baia di Toba.
È un lavoro stagionale che occupa solo una parte della giornata: si fanno ogni giorno due turni di un’ora e mezza, massimo due, e per ogni turno le Ama si immergono circa sessanta volte. Hanno polmoni molto forti, che allenano fin da bambine: l’immersione in apnea arriva a 30 metri di profondità e dura non oltre i 2 minuti. Quando le pescatrici tornano a galla emettono un suono particolare, ama isobue, una sorta di fischio melodico simile a un lamento, conosciuto come “richiamo delle sirene”.
Le Ama si dividono in due gruppi: le oyogido o kachido, che non usano una barca ma si immergono vicino alla costa, fino a 4 metri, sono le più giovani e inesperte o le più anziane, che hanno meno resistenza alle immersioni profonde e prolungate.
Le funado, invece, sono quelle che anche guadagnano di più: lavorano in generale in coppia con un uomo che rimane sulla barca (di solito si tratta del marito) mentre loro si immergono a largo fino a 25 o 30 metri, legate con una corda e aiutandosi per la discesa con pesi da circa 10-15 kg. Quando la pescatrice vuole risalire tira una corda e l’uomo sulla barca la riporta in superficie grazie a un argano.